domenica 17 febbraio 2008

Le due «case di tolleranza» dei benestanti e del popolo

l Centro — 17 febbraio 2008 pagina 05 sezione: CHIETI
CHIETI. «Le case di tolleranza a Chieti erano due: una a porta Pescara, all’angolo con via dei Calderai, tenuta da Enrica e frequentata dai militari e dal volgo; l’altra in via dei Crociferi, gestita da Gina e bazzicata dai benestanti. Lo Stato imponeva controlli medici. La loro chiusura fu decretata della legge Merlin». E’ l’avvio del capitolo sesto del volumetto «Nicola Cucullo (La mia vita, la mia battaglia)», biografia curata da Anna Maria Santoro per i tipi di Tabula Fati (Chieti, 1997). A cinquant’anni dall’abrogazione della disciplina del mestiere più antico del mondo ripercorriamo il clima vissuto in quei giorni nello spaccato provinciale di una città che ha costruito i suoi ritmi pacati anche attorno al fascino dei “lupanari” di pompeiana memoria. Ed il celebre “rosso”, la tinta predominante negli affreschi di Pompei dedicati alla prostituzione, era il rassicurante motivo cromatico dei divani in seta damascata e velluto di quelle case teatine «in cui si andava di nascosto perché tutti sapevano che lì si vendeva l’amore, anche se tutti tolleravano se non addirittura approvavano». Nicola Cucullo si racconta e racconta Chieti attraverso quelle esperienze adolescenziali. Dal fascismo a Chieti città aperta, dalle “Am-lire” alla costituzione repubblicana ed allo status-quo che traghettò nel sistema democratico la regolamentazione del così detto meretricio di stato introdotto da Cavour. Poi dieci anni di gestazione ed il 20 febbraio 1958, contrari monarchici e missini, le camere approvano il testo elaborato dalla senatrice Lina Merlin. «Per me», dice ‘don Nicola’, «fu un grave errore, migliaia di ragazze finirono sulle strade e lo sfruttamento della prostituzione che la Merlin voleva evitare si ripropose di fatto, e senza alcuna tutela per quelle povere sventurate, arrivando ad assumere aspetti inquietanti di violenza e di degrado». E’ una difesa a tutto campo quella dell’ex sindaco, il più longevo, politicamente parlando, delle “legislature” cittadine. «Durante il mio triplice mandato», continua Cucullo, «scrissi a diversi politici per riproporre la necessità di tornare alla legge che precedeva la riforma Merlin, ovviamente con i dovuti aggiornamenti». Inevitabile, per un mussoliniano senza se e senza ma, il ricorso alla filosofia del “quando c’era lui”. Ma anche a quella post-fascista. Se è vero, come è vero, che l’istituzione delle case di tolleranza è stata l’ultima eredità del ventennio amministrata in via fiduciaria dallo stato neorisorgimentale. Dunque, «allora le prostitute avevano dignità, sostenevano controlli medici, la loro era una funzione sociale perché in tanti, compreso il sottoscritto, spesso andavano da loro solo per parlare, per incontrare gli amici». Una scuola di vita, secondo Nicola Cucullo, «nonostante il rischio di contrarre lo scolo e le piattole», che avvicinava gran parte degli utenti alla sfera umana di quelle giovani. E’ chiaro, l’approccio sessuale aveva il suo forte richiamo. Ma in fondo «non ho mai sopportato di andare con una donna a pagamento. E’ una cosa orribile. Il fatto che mentre sto facendo l’amore lei mi chiede se voglio stare di più, e quindi se sono disposto a pagare di più, è il niente, è come tirare lo scarico del gabinetto per fare uscire l’acqua, mi sembra veramente squallido, la prestazione era a tempo nel senso che ti dovevi spicciare e più ti spicciavi e più aumentava la pila delle marchette». La pila di quei dischetti di rame garantiva la conta dei clienti scandiva la qualità e la quantità delle giornate vissute nella casa chiusa. Che diventava una specie di circolo. Un dopo lavoro a metà strada tra un gran caffè ed un odierno consultorio familiare dove gli afficionados, poco più che mocciosi, come Nicola Cucullo ed i suoi amici del quartiere, o adulti, come uomini pubblici, professionisti e commercianti, spendevano dieci lire solo per entrare. Dopo un po’ arrivava la maitresse che «dava una smossa» agli indecisi. E per chi decideva di proseguire, giù altre lire, fino a quaranta, per una “sveltina” cronometrata dalla tenutaria che ad un certo punto suonava il campanello. «Che ti faceva venire un accidente e non facevi più niente, perché quel trillo maledetto ti stroncava la vita, la pelle. Le prostitute erano registrate e pagavano le tasse», prosegue Cucullo, «oggi si parla tanto di evasione fiscale, sarebbe un rimedio, non credete?». Le “puttane” di Gina erano più sofisticate, spesso istruite. Quelle di Enrica più popolane e scafate per rintuzzare le advances dei militari. Il regista teatino Luciano Odorisio girò alcune scene del suo Sciopen proprio in via Paradiso, a confine con via dei Calderai, il luogo cult delle case chiuse di Chieti. Per la cronaca Gina morì in miseria presso l’ospizio dei Cappuccini. Analoga fine per Enrica che venne spillata di ogni risparmio da un facoltoso commerciante. Nei ricordi di Nicola Cucullo scorrono quei volti e quelli di Franca, Lolita e delle altre ragazze «che venivano da Roma, Bologna, Trieste per regalarci sogni e consigli, molte si sposarono qui e cambiarono vita, perché erano donne vere, di cui anche innamorarsi».
Succedeva a Chieti, fino a quel 20 febbraio del 1958.
Oscar D’Angelo

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